Analisi 1999 di Sandro Parmiggiani

(…) Per Attilio Braglia la “nuova figurazione” diventa, dopo l’iniziale momento realista, l’approdo, il macerato riferimento cui, in fondo, resterà per trent’anni fedele. Già un dipinto del 1970, Interno esterno, è emblematico di questa adesione, nel suo evidente riproporre i moduli di composizione spaziale di un Ferroni. La superficie del dipinto è divisa da una banda orizzontale, che è una sorta di orizzonte, di ancoraggio del racconto in più “quadri” – tra di loro, anche se nell’immediato appaiono dissonanti, strettamente collegati – che l’artista viene svolgendo. Questa banda separa, e insieme accosta e fonde, due situazioni alternative che così vengono rese comunicanti, interagenti, come se quella linea fosse una frontiera che divide e unisce allo stesso tempo.

Un’altra costante compositiva dei dipinti di Braglia è l’addensarsi della rappresentazione di un punto: un brulicare delle immagini, un groviglio di segni, come se il quadro sempre avesse bisogno di una concentrazione, quasi ossessiva, di forme e colori, cui fanno da contrappunto vaste, libere campiture – in cui, magari, si proietta e incombe un’ombra, qualcosa che sta “fuori” della scena, ma che necessariamente vi entra. C’è, in molte opere di Braglia, una sorta di rapporto conflittuale tra luce intensa, quasi accecante – luogo dell’apparente massima capacità di vedere – , ed ombra, a volte cupa, appena accennata impronta di un corpo e di una forma, oscurità che cela la verità delle cose. Questo contrappunto tra luce e ombra, questo “montaggio” della scena per frammenti di realtà distanti e separate, questo irrompere sulla ribalta di ciò che dovrebbe essere “fuori campo”, con uno schermo in cui inestricabilmente si fondono realtà, memoria, sogno, dà vita ad immagini corrose dall’inquietudine, segnate da una sorta di sottile estraniamento.

(…) Certo c’è , in Braglia, un tributo, quasi ossessivo, alla silente vitalità della natura, al pulsare dell’esistenza vegetale e animale, o al movimento (palio, maratona, passaggio di un autobus) in se’. Presto, tuttavia, s’insinua in noi il sospetto che si tratti di un’elegia, di un rimpianto di qualcosa che è irrimediabilmente perduto o che il nostro occhio ormai diseducato abitualmente non vede nella sua bellezza fragrante. Forse questo sentimento spiega perché Braglia, nelle fasi conclusive di realizzazione dei suoi dipinti, ripercorra, con un pennello sottilissimo, le minute linee dei contorni di alcune delle forme, tanto da delineare un reticolo di piccoli filamenti di colore in rilievo, aumentando la profondità della scena e dando una sorta di illusione ottica, di stordimento della visione.

Sembra quasi, Braglia, credere che quella materia in rilievo, così amorosamente stesa, possa, in un qualche modo, farsi il corpo delle cose che rappresenta, di quell’esistenza che egli si ostina a dipingere, mentre incombe su di essa la minaccia dell’annientamento, della dissoluzione, del suo precipitare nel vuoto assoluto, quando nulla – né corpo, né colore, né suono, né profumo, né sapore della vita- più importa.