Giuliana Ghidoni incontra Braglia a Carpi

Attilio Braglia intona un canto alle meraviglie del mondo, siano esse naturali o artificiali. Egli narra di moderni miti, dopo aver scandagliato gli abissi e ritro­vato memorie colte in composizioni citazioniste.

Formatosi nell’am­bito del Realismo Esistenziale, il suo sguardo sul contemporaneo e il quotidiano ha l’acutezza del fotoreporter e riesce a far assurgere a rilevanza universale qualunque episodio dell’epica moderna, sia essa una gara sportiva, una corsa di cani, una gara di cavalli.

Sotto la lente del pittore il rito folkloristico del palio o quello sportivo della maratona sembrano incarnare la tensione del gesto eroico e la forza dell’agonismo supremo, sulla sua tela l’energia del movimento in­trappolato dal disegno esplode nel colore, nella matericità della sot­tile pennellata a rilievo, nell’abbagliante uso della luce che eviden­zia i contrasti dei piani per lo più sovrapposti.

Braglia rielabora lo spazio, elude l’impostazione monocentrica classica, spesso vincola le composizioni a più punti di fuga, a volte allarga la ripresa fino a superare le leggi prospettiche, si serve di parti di tela a monocromo per concentrare la rappresentazione su fasce o agglomerati, quasi a voler comprimere tutto il potenziale dell’energia che l’azione rap­presentata vuole far esplodere. L’uso di delimitazioni, di quadri nei quadri, di sovrapposizioni e di cornici dipinte internamente a quella fisica del quadro, riportano al frame cinematografico, alla succes­sioni di momenti rappresentati contemporaneamente, all’idea di compenetrazione e simultaneità, oltre che di apertura e di velocità, che riportano lo stile alla poetica futurista. Il pulviscolo alzato dagli zoccoli scalpitanti dei cavalli, le direttrici di fuga dipinte, le sovrap­posizioni di colori e ombre, uno sfuocato da fotografia mossa, riper­corrono l’idea della rappresentazione del dinamismo di boccioniana memoria, superano l’ambiguità delle soluzioni di Balla, tengono fede al diktat marinettiano, ma in una forma assolutamente contem­poranea. I quadri di Braglia sempre rappresentano il movimento, anche nell’apparente immobilità di un abisso marino, dove invece la vita è brulicante, e regalano allo spettatore un’emozione spontanea che nasce dalla freschezza e dall’originalità di un punto di vista che il pittore rende “sine lege”, nella libertà che si gode in un mondo fatto di contraddizioni. Braglia poi sceglie un luogo particolare da dove osservare la varietà del genere umano, da dove approfondire quella fenomenologia del contemporaneo che già aveva caratterizzato la sua formazione artistica, e nasce il ciclo dedicato ai treni. Luogo emblema­tico, o non-luogo per la moderna filosofia dopo Marc Augé, quello del­la stazione, dove di nuovo Braglia ripropone i suoi topoi: il dinamismo di “Quelli che partono” contro la fissità di “Quelli che restano”  e le ampie campiture cromatiche piatte e uniformi che incorniciano fotogrammi, pulsanti di azioni e di tensioni emotive, ricavati dalla conformazione stessa del treno con i suoi finestrini. Ribaltando il punto di vista da chi viaggia, e guarda oltre il vetro verso l’esterno, a chi resta, è lo spettatore che scru­ta dentro quella metafora dell’umanità in viaggio che il treno incarna.